La mia vita contadina dipinta e scolpita nel cuore
Annunziata Scipione non è stanca della sua arte. Nonostante l’età avanzata, 84 anni suonati, trova ancora la forza di prendere in mano la matita (una normalissima Staedtler) e di rendere tangibili le cose che le suggerisce la sua fantasia. Quando la incontriamo, disegna sotto lo sguardo amorevole del figlio Piero, insegnante di educazione fisica con un passato da podista pluripremiato a livello nazionale. Ad Azzinano di Tossicia, il “borgo dei ricordi”, reso celebre dai dipinti murali di Annunziata e da quelli degli artisti che le hanno reso omaggio e che hanno fatto entrare la frazione nel “Club nazionale dei Paesi dipinti”, il tempo ha come rallentato il battito per attendere che lei partorisca ancora nuove opere.
Non è solo l’esposizione permanente a lei dedicata, nel palazzo Marchesale di Tossicia (purtroppo danneggiato dal terremoto), a tributarle gli onori….
…Annunziata Scipione è infatti riconosciuta come una delle massime esponenti dell’arte naif a livello internazionale. Da molti viene considerata l’erede spirituale di Antonio Ligabue. Alcuni suoi quadri sono al Museo Nazionale delle Arti Naïves di Luzzara, per volontà di Cesare Zavattini, uno dei suoi estimatori. E dire che lei, nata in una famiglia contadina, non ha che la terza elementare. Un’infanzia difficile, con il fratello “alla guerra” e lei piccola con le altre sorelle nei campi, a mietere o a pascolare le pecore. Azzinano è tutta la sua vita. Qui nasce, trascorre infanzia e adolescenza e sposa il capomastro Ettore Di Pasquale. Da moglie e madre divide il tempo tra la casa e la campagna e, più tardi, il cavalletto. Ma il contatto con l’arte, rimasto latente fino all’età di 42 anni, avviene quasi senza che lei se ne accorga. Ed è strano, davvero, se si pensa che non ha frequentato altri artisti ed è sprovvista di qualsiasi informazione “tecnica” sull’arte figurativa. Unico antefatto, si legge nella sua biografia, sono gli abbozzi che da pastorella tracciava col carbone sulla porta della stalla o le figurine di creta che modellava in campagna seguendo il gregge.
Annunziata, si ricorda quando ha iniziato a disegnare?
«Non so quando di preciso, potrei dire di esserci nata con il desiderio di dipingere. Da ragazzina ho sempre scarabocchiato. Lo facevo sui muri e con il carbone perché non avevo la matita. E con la terra realizzavo dei piccoli pupazzi. Erano tutte cose che poi si buttavano. Insomma, finiva lì. Ma dipingere, beh, non si può dire che io l’abbia fatto dall’inizio. Una volta si doveva andare a lavorare la terra, non si aveva tempo per fare altro…».
Cosa si divertiva a rappresentare nei suoi disegni?
«Erano sempre gli stessi soggetti, glielo dico: il cane, il gatto e le signorine… Nient’altro, per la verità. Poi ho cominciato a disegnare anche le persone che avevo intorno, per primi i miei genitori».
In che momenti della giornata disegnava?
«Non era facile trovare il tempo, glielo assicuro. Si doveva lavorare la campagna. Dalla mattina alla sera. Cogliere le olive. Mietere il grano. Andare con le pecore. Eravamo sette figli, uno maschio e tutte femmine. E il maschio non c’era quasi mai perché veniva richiamato in guerra. Lo facevo di nascosto».
Di nascosto anche da suo marito?
«Quasi di nascosto. Prima ancora di dipingere, realizzavo queste piccole statue in terracotta e in legno (le indica nella stanza, ndr). Il materiale lo prendevo dagli scarti di legno, destinati alla stufa, che riportava a casa mio marito. Il quale, poi, scoprì queste cose e iniziò a procurarmi lui stesso il materiale per farle».
Si ricorda invece quando iniziò a dipingere?
«Iniziai a dipingere su tela quando un pittore di Tossicia, che viveva a Roma e poi tornò da queste parti, commentando le cose che facevo con mio marito, disse che c’era la mano di Van Gogh. Mi suggerì di cominciare su tela. Mi misi a ridere. Io lo facevo per gioco. Le donne di quell’epoca queste cose non le facevano… Facevano la calza, sì, ma non dipingevano. Comunque andò a finire che comprai due tavole da un falegname di Montorio e provai».
Suo marito rimase impressionato da ciò che realizzava?
«Mio marito disse solo che voleva far vedere i quadri. Se sono validi, diceva, continui. Altrimenti, lasci. Ricordo che li facemmo vedere al professor Tonino Di Nicola, di Castelli, che rimase sorpreso. Voleva tre di quei quadri e mi chiese il prezzo. Mi offrì trentamila lire. Dopo quell’episodio, io e mio marito andammo a Montorio a comprare delle tele e dei colori. Prendemmo quelli essenziali, non eravamo capaci neanche di sceglierli perché non li conoscevamo».
Si ricorda chi acquistò le sue prime tele?
«Ricordo che la prima tela, realizzata dopo quell’acquisto, fu comprata da Giancarlo Giannini».
Che cosa prova quando dipinge?
«Cosa provo? Io provo tutto. In fondo, nessuno mi aveva detto nulla. L’ho fatto di mia prepotenza. È una cosa che mi è sempre piaciuta. E ogni quadro ha la sua storia perché io ho dipinto quello che ho visto intorno a me e quello che ho vissuto e ancora adesso ricordo: il bosco, la campagna, la vita dei contadini, queste cose ho dipinto».
Quando capì che le sue opere piacevano?
«Quasi subito. Con le prime mostre».
Che tecnica ha utilizzato nelle sue opere?
«Nessuna tecnica, no. E non ho mai disegnato il soggetto prima di dipingere. Ho sempre iniziato subito con il pennello, direttamente. Una volta si andava a scuola con una borsa di pezza fatta da noi stessi e forse un foglietto. Non c’erano neanche le matite».
Che pensa del suo talento? Si è chiesta da dove nasce?
«Non saprei dirlo, è venuto da sé».
Si è mai confrontata con le opere di altri pittori?
«Sì, ne ho conosciuti tanti e ho visto i loro quadri, devo dire che mi sono sempre piaciuti più dei miei…».
(Risate).
Che direbbe a chi ha un talento come il suo?
«Di non lasciare, di continuare. Potrebbe diventare una cosa vera, come è successo a me senza quasi essermene accorta».
Rispetto a una volta, secondo lei, la vita che viviamo oggi com’è?
«La vita in questi ultimi tempi, come sappiamo tutti, è peggiorata. Ma noi, in passato, non eravamo felici. Lo eravamo quando si giocava, sì. Ma in campagna io non ero contenta. Andavo con le pecore. Mio fratello era in guerra. Si lavorava tanto. Ricordo per esempio che per andare a prendere l’acqua si doveva fare tanta strada… Ricordare quel periodo è bello, si ricorda la gioventù, ma la vita non era facile».
CHI È
Sensibilissima, di forte intuizione e di memoria terribile, la Scipione sebbene «illetterata», costituisce una vera miniera circa le tradizioni del suo ambiente, il linguaggio dialettale e le peculiarità che presenta nelle sue tele. Inizia come per caso verso il 1968 scolpendo a tuttotondo legno locale; finché nel 1972, spinta come da forza irresistibile, passa improvvisamente e stabilmente alla pittura. Già nel 1973 si segnala in estemporanee, mentre nel 1974-75 si afferma largamente in campo nazionale e fuori d’Italia. Sue opere sono state presentate a Londra, Parigi e altrove, e figurano in collezioni private e in vari musei di arte moderna. Numerose le partecipazioni a mostre e premi. Sue personali ad Ascoli Piceno, Terni, Teramo, Spoleto, L’Aquila, Roma, Ravenna e in molte altre località. Forse il riconoscimento più ambito, e che molto ha sorpreso l’Autrice, è che due suoi quadri caratteristici (Pellegrinaggio a Roma e I taglialegna all’Angelus) sono stati prescelti per celebrare e ricordare in tutta Italia l’Anno Santo «straordinario» 1983-84: riprodotti a colori in un grande manifesto, sono restati esposti negli Uffici Postali per l’intero anno. Gli originali invece sono stati esposti per l’anno giubilare nella Galleria Nuovo Sagittario di Milano; i due quadri inoltre sono riprodotti nel Libro degli Anni Santi Straordinari, strenna d’eccezione, insieme a francobolli commemorativi in argento (Luciano Panichi Editore, Milano 1984).
(Tratto dal libro “L’arte naif di Annunziata Scipione” di Padre Natale Cavatassi e Giammario Sgattoni pubblicato da Edigrafital)
Intervista pubblicata su “La Città” del 6 giugno 2013