Freyrie, se la scrittura diventa uno spasso molto serio
Se non scrive, legge. Se non legge, suona la chitarra (classica ed elettrica). Vive a Bologna e lavora a Milano ma nelle sue vene, grazie alla madre, scorre sangue abruzzese. Ama Giulianova, dove trascorre (parole sue) almeno un mese all’anno della sua vita da quando è nato. Non è un tipo di quelli che danno nell’occhio, tuttavia è difficile che gli sfugga qualche dettaglio della realtà che lo circonda. Se non lo conosci bene, fai fatica a credere che una persona così seria, gentile e a modo sia capace di far ridere fino alle lacrime, davanti allo schermo, milioni di italiani. Come? Semplice: Francesco Freyrie, scrittore di teatro e televisione, è uno degli autori di punta della squadra di Maurizio Crozza. A volte fa capolino, agghindato come un perfetto corazziere, accanto al Crozza-Napolitano. Non ha velleità di attore, al contrario. È uno che ha fatto della scrittura una precisa ragione di vita oltre che il suo unico e prezioso (soprattutto per gli altri) lavoro.
Freyrie, la sua avventura da autore è iniziata quando?
«In realtà è una cosa che ho scoperto abbastanza presto, da ragazzino. A me piaceva scrivere, come tanti che hanno questa passione, e ho cominciato che avevo tredici, quattordici anni. Scrivevo piccoli racconti, per i fatti miei, mi ricordo che allora ero molto appassionato di fantascienza».
L’occasione di sentirsi scrittore quando è arrivata?
«Ho avuto la fortuna di partecipare a un paio di premi letterari tra i quali il Premio Teramo, che vinsi nel 1986, a ventitré anni, con il racconto ‘La signorina Giulia’. Era un racconto sul genere realismo magico, di quelli basati sulle piccole cose della quotidianità che, viste in un certo modo, subiscono ribaltamenti quasi surreali».
Ebbe altre conferme del suo talento?
«L’anno dopo, a Bologna, in occasione della Biennale dei giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo, una manifestazione itinerante che aveva già fatto tappa a Barcellona, Roma, Atene, vinsi con un racconto intitolato ‘Batman’. Era la storia di un ragazzino che, per risolvere i suoi problemi, più che altro di carattere, si travestiva come il personaggio dei fumetti. Da lì è iniziato tutto».
E poi?
«Mi sono chiesto se di questa mia passione per la scrittura potevo fare un lavoro. Peraltro ero stato corteggiato anche da alcune case editrici, come quella per cui scriveva Pier Vittorio Tondelli e in cui l’editor era Massimo Canalini, ma in quel momento pensai che se avessi iniziato a fare lo scrittore avrei dovuto trovarmi un altro mestiere per vivere. E siccome non volevo che questo accadesse, feci una scelta».
Quale?
«Provai a cercarmi un lavoro collegato alla scrittura e tentai una strada che, lo confesso, non mi piaceva per niente. Quella del giornalismo. E l’ho seguita fino a essere pubblicista e trovarmi ad un passo dal fare l’esame da professionista».
Si è mai pentito di aver lasciato?
«No. Per niente. Per carità, io conosco tanti amici giornalisti bravissimi. Poi, però, c’è una parte di questo mestiere… ecco… Karl Kraus diceva che se un uomo non ha opinioni fa il giornalista. Io, invece, ogni tanto mi pecco di averne e soprattutto penso di avere dei punti di vista e delle angolazioni da cui osservare il quotidiano. Diciamo che ho preferito usare quella strada per entrare in un circuito dove mi sono fatto le ossa».
Con quali giornali ha lavorato?
«A Bologna collaboravo con ‘Repubblica’ e sono stato per due anni caporedattore della rivista ‘Mongolfiera’ (storico magazine, prima quindicinale e poi settimanale, di informazione culturale, ndr). Lì ho imparato tante cose, dal trattare con le persone al titolare o correggere o tagliare i pezzi e gestire in questo modo un’intera pagina. La mia esperienza giornalistica mi ha confermato che per imparare un mestiere devi stare dalla parte della cucina».
Ha lavorato anche come critico musicale, o sbaglio?
«Sì, quando ero giornalista ho recensito tutti i gruppi musicali indipendenti della provincia di Bologna. Oltre centocinquanta gruppi. Ho impiegato sei mesi. Mi accompagnava mia moglie in macchina. Molti di questi musicisti, ovviamente, poi hanno fatto altro nella vita. Sono diventati bancari, notai, avvocati, (risate)…».
Da una passione all’altra… Dopo il giornalismo è approdato al teatro, è così?
«Certo. Iniziai dando una mano a Giorgio Comaschi, giornalista di ‘Repubblica’ ma anche cabarettista. Una persona molto colta e gradevole. Un vero personaggio a Bologna. Fece anche un po’ di televisione. Mi chiese di dargli una mano a scrivere uno spettacolo di cabaret. E così iniziai. Ma non scrivevo e basta. Facevo il suggeritore, il siparista, il fonico audio… tutto. Grazie a questa esperienza, ho imparato un mucchio di cose e, subito dopo, ho iniziato a fare teatro a tempo pieno».
Il sogno di molti è fare un lavoro come il suo, vivere della propria fantasia. Ma non ha paura che questa fantasia, una volta imbrigliata, organizzata e compressa in un lavoro, venga meno e possa soffocare?
«No, non lo credo. Anzi, io credo che la fantasia, come la libertà, vada regolata. Fantasia e libertà, senza regole, sono anarchia. La mia libertà esiste e ha un senso finché non lede la tua libertà. La fantasia, secondo me, è un qualcosa che deve essere la scintilla del motore, lo scoppio, il big bang. Ma poi quello che viene fuori va reso comprensibile per gli altri. Ci sono dei bellissimi film o dei bellissimi romanzi che ruotano intorno a delle idee meravigliose ma sono scritti male o sono costruiti in maniera tale da non funzionare. Se tu non hai le regole per portare al mondo le tue idee o la tua fantasia, se non hai delle regole tue di sviluppo narrativo, di costruzione, di climax, la fantasia rimane una bellissima scintilla inespressa».
E come s’impara a regolarla?
«Non ne ho la più pallida idea (risate). No, no… secondo me c’è un modo: bisogna leggere, o ascoltare o vedere un sacco di roba. E bisogna farlo sin da piccoli, altrimenti non è la stessa cosa. Io sono cresciuto stando a mollo nella mia musica e nei miei libri. Sì, andavo anche in discoteca ma spesso e volentieri il sabato sera stavo a casa a leggermi un libro».
Lei come costruisce la sua idea?
«Se parliamo di teatro, quando ho un’idea la sviluppo e comincio ad acquistare libri su quell’argomento. Comincio a leggerli e a costruirmi una specie di atlante geografico fatto di libri. Quando mi sono fatto un bagaglio, passo alla scrittura. E qui mi allontano dal concetto di ispirazione romantica di cui abbiamo parlato. Scrivere richiede tempo. E fatica».
Come si fa a far ridere?
«Osservando la realtà. Ma anche leggendo e studiando chi fa ridere. Achille Campanile, per esempio, era un grande umorista. Come a suo modo l’abruzzese Ennio Flaiano. Certo, se sei predisposto, se hai sense of humour ci riesci meglio. Ma un conto è essere simpatici al bar o quando si va a sciare e un altro è far ridere. Questo è un mestiere che si può costruire e imparare».
CHI E’
Francesco Freyrie è nato a Bologna nel 1961 ma da quando è nato trascorre almeno un mese della sua vita a Giulianova, di cui si sente cittadino a pieno diritto. E’ autore di teatro e di televisione. Per il teatro collabora con lo stabile di Bologna e ha firmato una cinquantina di commedie per Vito, Antonio Albanese, Paolo Cevoli e Gene Gnocchi. Per la televisione, dopo una lunga collaborazione con Gene Gnocchi, da quattro anni lavora con Maurizio Crozza.
Nicola Catenaro
Intervista pubblicata su “La Città Quotidiano” del 22 agosto 2013