L’uomo che studia i mattoni primordiali dell’universo
Si sta dando da fare per rendere l’osservatorio (concedeteci l’ossimoro) più “visibile” all’esterno. E per cercare di evitare che, contrariamente a quanto scritto tre anni fa nello statuto dell’Inaf, l’Istituto nazionale di astrofisica da cui dipende, quello di Collurania venga accorpato a Roma. Un modo elegante per dire che chiuderà. Roberto Buonanno, direttore dell’osservatorio fondato da Vincenzo Cerulli nel 1890 e presidente della Società astronomica italiana, per il momento ha ottenuto, anche grazie all’aiuto della Regione e delle risorse del Fondo sociale europeo, il congelamento della decisione. Il contributo Fse arriverà in cambio delle attività didattiche che i ricercatori di Collurania si sono impegnati a svolgere nelle scuole superiori abruzzesi. Do ut des. Ma il rischio di chiusura è acqua passata. Buonanno si rilassa e noi ne approfittiamo per cogliere (dello scienziato) un’intervista-ritratto.
Roberto Buonanno, la passione per l’astronomia quando è arrivata nella sua vita?
«Tardi. Ero iscritto al corso di laurea in Fisica, a Roma. Avevo la passione scientifica ma dagli studi che avevo fatto al liceo vennero fuori improvvisamente esigenze filosofiche. Volevo comprendere il motivo degli studi di quel periodo. Eravamo all’inizio degli anni Settanta, allora si cominciava a capire la struttura della materia e dell’universo».
Quali erano gli interrogativi ricorrenti dei suoi crucci filosofici?
«Non riuscivo ad accettare il fatto che non si potesse risalire indietro nel tempo. Ricordo bene una delle prime lezioni di astrofisica del professor Gratton, un grande scienzato, che esordì dicendo che qualunque cosa fosse il Big Bang (nome che la fisica moderna dà all’esplosione originaria da cui si sarebbe sviluppato l’universo, ndr) prima c’era una sfera di gas isotermo, cioè alla stessa temperatura, che per definizione perde memoria di ciò che c’è prima. Dunque, secondo questa teoria non si può sapere cosa c’era prima. Trovai questa cosa orribile, era orribile la mancanza di prospettiva, l’impossibilità di risalire indietro. Ma la scienza è riuscita poi a risalire indietro rispetto a quel momento».
Qual è la missione dell’astronomo?
«Partiamo da un concetto: oggi non esistono astronomi, oggi ci sono gli astrofisici (anche se la legislazione italiana continua a chiamarli astronomi, ndr). E sono quegli scienziati che applicano i principi della fisica appresi nei loro laboratori per comprendere la struttura dell’universo. È una differenza sottile ma fondamentale. Una rivoluzione, dal punto di vista culturale. Significa credere che le leggi che io scopro sulla Terra sono applicabili a tutto l’universo e in ogni momento indietro nell’universo. Le faccio un esempio. Il professor Gratton sapeva che c’era un limite alla comprensione, attualmente un astrofisico non ce l’ha questo limite».
Con gli strumenti che l’uomo ha a disposizione, fin dove ci si è spinti con l’occhio e con la mente?
«È difficile dare una risposta. Le posso dire che noi riusciamo a vedere fino a tre minuti dopo il Big Bang. E lei sarebbe insoddisfatto perché potrebbe dire: ma io le ho chiesto quale distanza… Bene, a quel punto le dovrei dire anche qual è la geometria dell’universo. Noi osserviamo infatti l’universo con la luce che arriva nei nostri occhi. Se questa luce arriva su una superficie piana, il tempo mi dirà qual è la distanza dato che io conosco la sua velocità. Ma se la superficie dell’universo non fosse piana ma curva, questa distanza sarebbe diversa a parità di tempo. Dunque, se l’universo è euclideo, cioè piatto così come noi lo percepiamo, possiamo pensare di vedere fino a quindici miliardi di anni luce di distanza. Ma bisogna conoscere la geometria dell’universo. Noi conosciamo solo il tempo, non sappiamo altro».
A quale dei progetti dell’osservatorio di Collurania è più affezionato?
«Tra le cose che si stanno studiando e che mi appassionano molto, ci sono le galassie ultradeboli. Galassie che, in termini astrofisici, sono vicine e intorno alla nostra. Sono state scoperte da poco, non più di dieci anni fa, e abbiamo buoni motivi per pensare che siano i mattoni primordiali che si sono aggregati per formare strutture più grandi come la galassia in cui ci troviamo. Un altro motivo di interesse è che queste galassie deboli hanno un contenuto di materia oscura enorme. Ma devo aprire una parentesi su cos’è la materia oscura».
Cos’è, appunto, la materia oscura?
«L’universo che noi conosciamo, così enorme e ricco di stelle, rappresenta il 5 per cento di tutta la massa che esiste. Il 95 per cento di questa è chiamata oscura perché non sappiamo cos’è ma sappiamo che esiste perché ne vediamo gli effetti gravitazionali. È diffusa in tutto l’universo e probabilmente è alla base di tutte le strutture che noi osserviamo. Ci sono delle idee su cosa sia, ma di certo si può dire soltanto che è qualcosa di diverso da noi e, mi creda, ci sono dei fondatissimi motivi scientifici per dire che esiste».
Di cos’altro si occupa l’osservatorio?
«In questo osservatorio c’è anche un gruppo di astronomi che studia la struttura interna delle stelle. Un compito importantissimo. Noi sappiamo che quando è nato l’universo c’era solo l’idrogeno e che, soltanto dopo, si è formato l’elio. Bene, ma da dove vengono gli altri elementi da cui trae origine la vita? Il calcio delle nostre ossa, il ferro, eccetera. La risposta è che vengono dalle stelle. Le stelle esplodono, gli elementi che si sono formati al loro interno si riaggregano ed eccoci qua… Dopodiché abbiamo un gruppo che fa tecnologia: c’è un telescopio in funzione in Antartide il cui rilevatore, di nome Amica, è stato costruito dai nostri ricercatori. I primi risultati di questo lavoro dovrebbero arrivare tra breve».
Quante speranze abbiamo di scoprire altre forme di vita nell’universo?
«La domanda, rivolta al sottoscritto, è un po’ imbarazzante. C’è chi crede che non riusciremo mai a scoprirle e uno di questi sono io. Parlando però dei progetti concreti che in questo campo si stanno portando avanti, le posso dire che si stanno ricercando in questa fase i pianeti extrasolari. Io partecipo a un progetto spaziale, chiamato Gaia, che tra gli altri obiettivi si pone quello di scoprire altri pianeti simili alla Terra. Di questi pianeti extrasolari, se ne sono scoperti circa un migliaio. Forme di vita, nessuna. Ma non vuol dire niente aver trovato mille pianeti in un universo che contiene miliardi di galassie, e ciascuna di queste contiene miliardi di stelle. Evidentemente ne abbiamo esaminati pochissimi in termini percentuali».
Lei cosa pensa?
«Io continuo a pensare che è talmente incredibile la serie di circostanze che hanno fatto sì che noi stiamo qui a parlare che, davvero, non sarei per niente meravigliato se ci fossimo solo noi. Per sapere se nell’universo ci sono altre forme di vita, bisogna sapere come comunicare e devi anche vederle. Come? È una parola. Con le onde radio, magari. Già, ma poi, se vedi qualcuno… cosa gli dici?».
CHI È
Professore ordinario all’Università di Roma “Tor Vergata, è stato direttore dell’Osservatorio Astronomico di Roma dal 1992 al 2005. Dal 1984 al 1995 è stato responsabile dell’Unità di Ricerca del Gruppo Nazionale di Astronomia e dal 1987 al 1993 componente del Consiglio delle Ricerche Astronomiche. Attualmente è direttore dell’Osservatorio Astronomico di Collurania e presidente della Società Astronomica Italiana. Presiede anche il Comitato Scientifico della RIAA (Rete Interuniversitaria di Astronomia e Astrofisica). Autore di numerosi libri e di circa 300 pubblicazioni (come registrato dal “NASA Astrophysics Data System”), è co-fondatore dell’Accademia delle Scienze d’Abruzzo istituita di recente.
Nicola Catenaro
Intervista pubblicata su “La Città quotidiano” del 28 novembre 2013