Il medico che studia e cura il secondo cervello umano
Ci sono persone che ti fanno sentire orgoglioso di essere italiano e felice di poter vantare comuni origini abruzzesi.
Una di queste è Filippo Cremonini, medico e ricercatore teramano ad Harvard. Un ragazzo brillante e con classe da vendere, così lo ricordiamo quando sgambettava dalle nostre parti. Poi si è trasferito negli Stati Uniti e lì è iniziata la sua ascesa.
Una carriera lastricata di successi. Che ci racconta (da Boston) il diretto interessato.
Cremonini, in Usa come è approdato?
«All’inizio quasi per scherzo: sono capitato all’inizio di un lontano inverno in Minnesota, uno stato remoto del Midwest dove c’è l’ospedale probabilmente numero uno al mondo, la Mayo Clinic, ma fa un freddo allucinante. Arrivato per lavorare lì con un grande maestro del mio campo (la gastroenterologia, ndr) speravo di poter scappare dopo qualche mese passato a trenta sotto zero rinchiuso in reparto, ma ci sono rimasto sette gloriosi anni».
A chi deve grazie per quella opportunità?
«Al mio maestro di quegli anni, il professor Giovanni Gasbarrini del Gemelli, a cui devo quasi tutto. Mi disse: no, a New York non ti ci mando, che poi cazzeggi dalla mattina alla sera. Aveva ragione da vendere».
L’America significa un sogno che si è realizzato oppure la fuga dall’Italia?
«Un sogno lavorare alla Mayo Clinic sì, per qualunque medico ricercatore. Fuga direi di no, non allora ad inizio millennio, quando le opportunità in tutta Europa iniziavano a schiudersi, e l’Italia non sembrava più in declino del solito. Ogni tanto rimpiango il posticino al Gemelli che mi fu graziosamente promesso, e ammetto di aver considerato seriamente svariate richieste di ritorno da colleghi ed amici. Fino a qualche anno fa mi piaceva definirmi in…vacanza lavorativa, quasi un emarginato volontario dall’Italia. Da qualche tempo, invece, mi considero un fortunato».
Cosa lascia chi lascia l’Italia?
«La schiettezza dei rapporti umani, la meraviglia dei dintorni geografici, la straordinaria complessità della cultura individuale e pubblica che si trovano a casa nostra non hanno raffronti nel mondo occidentale. E questo chi lascia l’Italia deve tenerlo bene in testa ».
Cosa le ha offerto l’America che qui non aveva?
«L’America, come a noi italiani piace ancora chiamarla, è un Paese enorme, e fa degli immigrati la sua forza. Credo che in Italia mi mancherebbe un certo cosmopolitismo, probabilmente frutto a lungo termine di politiche dell’immigrazione molto serie. Così pure la semplicità di infinite situazioni. L’America per vocazione semplifica. Noi, altrettanto per vocazione, complichiamo. Per tutto il resto però l’Italia offre molto più di quanto gli italiani stessi si rendano conto. Serve vivere all’estero per accorgersene, forse».
Di cosa si occupa in questo momento come ricercatore?
«Di nuovi farmaci e interventi per ripristinare il modo in cui l’intestino si contrae e l’intensità con cui percepisce il dolore. In molti credono che stomaco ed intestino siano nient’altro che tubi. Oggi si riconosce che nell’intestino esistono e si interconnettono più cellule nervose che nel sistema nervoso centrale. Qualcuno ha parlato, a ragione, di secondo cervello. E non è tutto: siamo solo agli albori della conoscenza delle funzioni immunologiche del tratto gastrointestinale e di come queste siano regolate dalle interazioni con l’ambiente, rappresentato dalla smisurata varietà della flora dei batteri gastrointestinali. Queste conoscenze sono la base per comprendere i disordini intestinali cronici che affliggono circa un miliardo di persone, ma se ne parla poco perché non le uccidono, piuttosto ne distruggono la qualità di vita. E non è un problema da poco. Confesso che molta ricerca, come quella sui probiotici e sulla flora batterica intestinale, tra i miei interessi, è pensata ed ideata anche in Italia, da persone validissime. Poi però, diciamo misteriosamente, idee partite da noi vengono messe a punto altrove e diventano il cavallo di battaglia di gradi centri di ricerca stranieri».
Tornerebbe anche oggi in Italia rinunciando alla sua brillante carriera accademica ad Harvard, come scrisse in quella lettera di un paio di anni fa che Beppe Severgnini del Corriere della Sera pubblicò sul blog “Italians”?
«Probabilmente sì, più col cuore che con la ragione. Gli stimoli principali, oltre al cappuccino cremoso, alle scrippelle m’busse ed alla porchetta di Campli, sarebbero la vicinanza fisica con eccellenti colleghi italiani, e il ribollire di idee che è rimasto un tratto fondamentale di alcuni centri di ricerca in Italia, nonostante la vergognosa inadeguatezza di strutture e risorse, ed il sistema accademico che resta, in troppi casi, di stampo mafioso. Ma ammetto di essere straviziato, lavorando in un mondo che, rispetto a molte realtà italiane, è venti o trenta anni avanti. E riconosco che dopo quattordici anni trascorsi a fare ricerca in certe condizioni, ritrovarmi a ripartire praticamente da zero sarebbe, professionalmente, un suicidio».
Sul Corriere finì anche un suo intervento circa un millantatore che, usando il nome di Harvard, sosteneva che Steve Jobs si sarebbe potuto salvare se non avesse fatto ricorso a cure alternative. Poi si scoprì che non era neanche laureato. Quanti improvvisatori ci sono oggi in giro nel suo campo?
«Tanti, come in tutti i campi. Uno dei problemi a mio parere è la mancanza di standardizzazione e verifica delle professionalità. Quando mi sono trasferito negli Stati Uniti con tanto di laurea e specializzazione con lode in un’ottima università di casa, già quasi quaranta pubblicazioni all’attivo e referenze varie, per poter vedere i malati ho dovuto sostenere quattro grossi esami di abilitazione. Dopo aver concluso altre due specializzazioni USA e un dottorato di ricerca, ho dovuto sostenere ulteriori due pesantissimi esami di certificazione, da ripetere ogni dieci anni. Così si è costretti a restare aggiornati. Forse un po’ troppo, ma è bastato per rendermi conto che aggiornamento e verifiche professionali in Italia sono una farsa. Con la scusa che le lauree sono diplomi professionalizzanti, ci sono un certo appiattimento e la rinuncia ad un aggiornamento serio, ed alla fine a rimetterci sono sia i pazienti che tanti colleghi bravi».
Che pensa del metodo Stamina?
«Il peggio possibile. Capisco abbastanza di cellule staminali e un po’ più di malattie per essere indignato, a nome soprattutto di chi soffre, per un altro scandalo di pressappochismo e, temo, corruzione. Di pressappochismo accuso non solo il pubblico ma soprattutto, e non me ne vogliate, l’informazione. Quando su troppi giornali leggo certe semplificazioni e forzose mezze verità su questioni che hanno vessato la comunità scientifica per decenni, mi viene da ridere. Di corruzione, morale e materiale, accuso certe strutture sanitarie con pubblica pecunia mantenute, che hanno accolto a braccia aperte questo novello Dulcamara Vannoni, che è dottore sì, ma in Lettere. E qui non mi viene da ridere, ma quasi da vomitare. Sorvolo sulla figura che le nostre istituzioni stanno facendo davanti alla comunità scientifica internazionale. Qualche secolo fa abbiamo dato i natali a Galileo…».
Gli Usa, terra di frontiera. Lo sono oggi per quanto riguarda la medicina?
«La medicina in America sta cambiando. La riforma di Obama presenta molte incognite. Indipendentemente da come andrà a finire, gli USA sono decenni avanti non solo nella sostanza delle infrastrutture ma nello stile dell’assistenza al malato. Nel modello americano il malato è al centro del processo decisionale, il soggetto più che l’oggetto. Lo screening per malattie prevenibili, come il cancro del colon, è un diritto-dovere, non un privilegio. È un fatto non solo di soldi ma soprattutto di mentalità. Forse da noi però non siamo ancora socialmente pronti. La malattia, soprattutto il cancro, resta per tanti un tabù di cui vergognarsi. In molti casi al medico non si pongono domande e da lui non ci si attendono certe risposte. Il non comprendersi, il non spiegarsi, è uno dei tanti mali della medicina di casa nostra divenuto consuetudine. Uno dei miei maestri in Italia diceva che si può guarire con la parola. Forse era un’esagerazione, ma in qualche anno mi sono accorto che la spiegazione è apprezzata dal malato quasi quanto la guarigione. E in questo, la medicina nei millenni non è cambiata, con buona pace di noi ricercatori».
Il suo sogno da realizzare in Italia.
«Una riproduzione in miniatura di un centro di ricerca-cura-insegnamento come la Mayo Clinic. Un centro in cui ogni malato sia, con sua piena adesione e partecipazione, un caso per la ricerca e l’insegnamento. Le risorse umane ci sono, eccome. Gli altri ingredienti consistono in un’enorme, improbabile donazione privata, con una partecipazione di pubblico, uno snellimento legislativo e di regolamentazione, e alcune figure politiche chiave locali e nazionali fortemente impegnate ed oneste. Appunto, un sogno».
CHI È
Specializzato in Medicina Interna all’Università Cattolica di Roma, Filippo Cremonini si è poi specializzato in Medicina Interna alla Mayo Clinic ed in Gastroenterologia ad Harvard. È stato ricercatore e Professore di gastroenterologia presso la Mayo Clinic Rochester, dal 2008 alla Harvard Medical School di Boston ed in seguito alla UCLA, a Los Angeles. È abilitato dal MIUR a Professore di prima fascia in Gastroenterologia. Ha al suo attivo oltre 150 pubblicazioni ed insegna, conduce ricerche e visita presso il Beth Israel Deaconess Medical Center (Harvard Medical School) e presso il Veteran Affairs del governo federale USA.
Nicola Catenaro
Intervista pubblicata su “La Città quotidiano” del 6 febbraio 2014