«Il fanciullino non è come ce lo raccontano a scuola»
Francesca Florimbii è nata a Teramo ma vive e lavora a Bologna. Per amore (diremmo) di Carducci e Pascoli (che peraltro insegnarono nel suo stesso ateneo), dato che la sua attività di ricercatrice e docente di filologia della letteratura italiana si è da sempre indirizzata verso lo studio di questi e altri importanti autori italiani situati tra Ottocento e Novecento.
Il risultato sono un bel po’ di pubblicazioni che ruotano intorno a un argomento non facile ma molto affascinante. La incontriamo nella sua città di origine, alcuni giorni prima di convolare a nozze con il marito, bolognese, nella chiesetta di Castagneto dove si sposò anche la madre.
Scusi Florimbii, scelse lei di frequentare Lettere moderne a Bologna?
«Sì, anche se in tanti mi suggerivano di ripensarci. Che te ne fai?, dicevano. E invece ero convinta. La scelsi contro tutto e tutti e senza pensare al seguito».
E cosa accadde?
«Che fin dopo il primo esame di filologia italiana capii che quella era la mia strada. Dissi a me stessa che mi sarei laureata in quella materia e che avrei continuato nell’ambito accademico facendo il dottorato di ricerca».
E così è stato. Ma come nasce la sua passione per la filologia della letteratura italiana?
«Nasce dal significato stesso della filologia, in questo caso lo strumento attraverso la quale possono essere ricostruite le opere letterarie. Io mi occupo soprattutto del periodo otto-novecentesco. Parto dai materiali autografi e lavoro su manoscritti, stampe o copie cercando di ricostruire la volontà degli autori al momento della stesura. C’è da dire che per moltissimi autori non abbiamo a disposizione materiale d’autore. La stessa Divina Commedia ci è pervenuta attraverso delle copie e non attraverso un manoscritto di mano di Dante».
Che iter segue sui manoscritti e sulle copie d’autore?
«Ricostruisco la genesi delle opere, tutto ciò che è avvenuto prima dell’ultima volontà dell’autore. Pascoli ha dato alle stampe più o meno tutto quando ancora era in vita. Ma ci sono casi in cui l’ultima volontà dell’autore va proprio ricostruita. Mi riferisco per esempio alle opere che vengono pubblicate postume. La bozza che è andata in stampa postuma potrebbe essere diversa dall’ultima corretta in maniera autografa dall’autore e dunque avere una valenza filologica assolutamente diversa. Facciamo attenzione a tutto, dalla punteggiatura agli eventuali errori di lettura».
La stampa come ha inquinato l’opera letteraria nella storia?
«In tanti modi. Certo, si deve distinguere. Un conto è la stampa di adesso e un conto sono gli incunaboli della metà del Quattrocento. I problemi degli stampatori erano infiniti. Dalla decifrazione dei codici agli errori di trascrizione».
Qual è stato il suo primo approccio con l’opera di Pascoli?
«Fu uno dei miei docenti a propormelo. Avevo letto e studiato Pascoli a scuola ma, devo essere sincera, non mi aveva esaltato. Averne approfondito la conoscenza leggendo i suoi manoscritti all’interno della sua casa, perché l’archivio Pascoli si trova proprio in quella che era la sua abitazione, ha cambiato il mio sguardo».
Cos’è che non conosciamo di Pascoli?
«Tutto. Direi tutto. Pascoli è un autore che a scuola viene banalizzato in una maniera estrema. Il poeta del fanciullino, il poeta delle piccole cose, il poeta che guarda tutto con gli occhi del bimbo. E invece non era nulla di tutto ciò. Era una personalità estremamente complessa, con gusto per tantissime cose e conoscenza di innumerevoli cose. Il fanciullino per come ce lo raccontano a scuola non rappresenta alcunché. È proprio tutt’altra storia. Giovani Pascoli era un uomo profondo che nella sua vita soffrì moltissimo e cercò di trovare nella poesia la sua forma di espressione».
Pascoli avrebbe dovuto insegnare a Teramo, è così?
«Sì, ma per un errore di scrittura fu mandato altrove».
Cosa suggerirebbe di leggere, o di rileggere, di Pascoli?
«Le “Myricae” e i “Canti di Castelvecchio” sono a mio avviso le due raccolte che lo rappresentano di più. Andrebbe soltanto cambiato il modo di leggerle e rifiutate le etichette. Le Myricae non sono le poesie di campagna e i Canti di Castelvecchio non sono le Myricae d’autunno».
Si rimane folgorati dal leggere alcune poesie di Pascoli… Un bubbolìo lontano. . . per descrivere il temporale… Sembra quasi di esserci dentro.
«Sì, perché lui gioca con la lingua moltissimo e la usa naturalmente per rappresentare quello che percepisce del mondo circostante. Suoni onomatopeici e analogie continue. Ad essere usata moltissimo è la sinestesia, quella con cui si rappresenta ad esempio una sensazione visiva con qualcosa di olfattivo… come l’odore di fragole rosse che fa capire che si tratta di un odore intenso, l’odore di un frutto maturo».
L’odore di fragole rosse de “Il gelsomino notturno”, un componimento dall’erotismo neanche troppo nascosto.
«Certo, perché questo era un aspetto fondamentale della sua esistenza. Pascoli definiva se stesso e la sorella, con cui ha vissuto fino alla fine, come i vergini. Si è sempre percepito come escluso dal rito amoroso, dalla vita coniugale, dalla coppia. Ne “Il gelsomino notturno”, che è un epitalamio (composto in occasione delle nozze dell’amico Gabriele Briganti, ndr), si pone un po’ come un voyeur e rappresenta una situazione che non gli appartiene».
Che idea si è fatta del rapporto tra Giovanni Pascoli e il suo maestro Giosuè Carducci?
«Di un rapporto un po’ combattuto, sin dall’inizio, perché erano due personalità estremamente diverse. Era diversa l’impostazione nella vita. Carducci era realmente l’uomo pubblico, che viveva anche dei riconoscimenti e delle situazioni. Pascoli cercava di avere dei riconoscimenti ma era incapace, in qualche modo, di porsi con un tono solenne quanto quello del maestro verso il quale da un lato c’era riverenza e dall’altro se vogliamo astio. Comunque avevano due modi di fare poesia e letteratura agli antipodi».
Sente come attuale la poesia che studia?
«Di attuale c’è il fatto che si tratta sempre di uomini, che attraverso la poesia dimostrano cosa sono e cosa rappresentano. La letteratura non è un qualcosa di astratto, lo dico sempre agli studenti, ma riguarda un modo di affrontare la vita molto vicino alla nostra quotidianità».
CHI È
Francesca Florimbii, ricercatrice e docente di filologia della letteratura italiana all’Università di Bologna e in passato anche all’Università di Trieste, affianca da anni alla ricerca scientifica la didattica universitaria. Si occupa di filologia del testo e filologia delle fonti, con particolare attenzione alla filologia d’autore, allo studio della ricezione e della tradizione letteraria, alla critica testuale. Alla sua impronta filologica sviluppata in particolar modo nel versante pascoliano, fanno riferimento alcuni tra i suoi titoli più estesi. Anzitutto la ricostruzione del lungo scambio epistolare fra Giovanni Pascoli e Alfredo Caselli, confluito nei due volumi da lei curati per la casa editrice Pàtron di Bologna, rispettivamente nel 2008 e nel 2010: di questi il secondo è inserito nel progetto di Edizione Nazionale delle Opere di Giovanni Pascoli. Il nodo dell’epistolografia otto-novecentesca e della sua tradizione ha trovato ulteriore sviluppo nell’analisi delle carte private carducciane: l’interesse per le lettere inedite inviate da Carolina Cristofori Piva a Giosue Carducci tra il 1871 e il 1881 ha dato alla luce la pubblicazione di parte dell’epistolario di Lina. In Florimbii è subentrata anche l’esigenza di interpretare i testi e collocarli in una prospettiva storico letteraria. In questa luce è da collocare una nota dedicata a Pier Paolo Pasolini e lo studio del carteggio Giosue Carducci-Jessie White Mario per la ricostruzione del laboratorio di scrittura degli Scritti di Alberto Mario. Ai contributi pubblicati nel 2012 per il centenario della morte di Giovanni Pascoli, dedicati alla ricostruzione degli anni della docenza bolognese, si affianca ora uno studio dedicato alle lezioni di argomento carducciano tenute da Pascoli nell’anno della morte del Maestro.
Nicola Catenaro
Intervista pubblicata su “La Città quotidiano” del 24 luglio 2014