Kuzminac: «Vivo in Abruzzo, è una regione benedetta»
Alzi la mano chi tra di voi non ricorda Goran Kuzminac, il cantautore di origini serbe che cantava “Tempo” o, insieme a Ron e Ivan Graziani, “Una canzone senza inganni”. Vive da anni in Abruzzo, nei pressi di Cellino Attanasio, in una modesta ma bella casa di campagna da cui si scorgono insieme mare e montagna, e di recente ha inciso un disco jazz. Da qualche anno, Kuzminac – che è laureato in medicina – si occupa anche di musicoterapia a sostegno dei malati psichiatrici e delle persone con problemi di anoressia. Dal 2009 collabora con l’ospedale psichiatrico “Villa dei Fiori” di Roma. Inoltre si sta specializzando alla Scuola di musicoterapia di Assisi dove è lo studente più anziano ma anche l’unico ad aver pubblicato quindici dischi e ad avere una lunga carriera alle spalle. Qualche giorno fa è stato a Crema, ospite del Centro medico specialistico “Medicina domani”, per parlare della sua esperienza e per avviare un nuovo progetto di musicoterapia. Ma l’intervista è partita da lontano.
Di cosa parlava la tua prima canzone e quando l’hai scritta?
«La primissima canzone era per un amore giovanile del secondo liceo. Ricordo vagamente qualche verso. Diceva che io non sapevo dipingere né comporre poesie e quindi avrei provato a scriverle una canzone. Ma alla ragazza in questione non piacque, perciò direi che come inizio non andò molto bene (risate)».
Cosa è cambiato da allora nel tuo essere un cantautore?
«Scusami, ma cantautore è una parola che non mi piace per definire quello che faccio. Io sono più un songwriter, cioè uno scrittore di canzoni. E una canzone è una forma assolutamente degna di espressione. Da allora, per tornare alla domanda, è cambiato il fatto che non vado più totalmente d’istinto. Il cinquanta per cento, adesso, è costituito dal sapere come. Voglio dire che non ti puoi improvvisare falegname: il primo tavolo magari ti riuscirà bene, ma poi devi sapere come costruire tutte le gambe della stessa altezza altrimenti il tavolo sarà sempre un po’ ballerino».
Il songwriting, lo scrivere canzoni, si può insegnare?
«Sì, o almeno si può insegnare ciò che serve a evitare le buche più grandi. Ho intenzione di iniziare a farlo qui dove risiedo, magari nei fine settimana, tramite il metodo del confronto diretto con musicisti che già sono avanti nel loro percorso e hanno questa curiosità del come».
Sei un maestro del fingerpicking, tecnica basata sul suonare la chitarra con la punta delle dita. Come hai iniziato?
«Suonavo la chitarra classica, maluccio, e scrivevo le classiche canzoni grattate alla Rino Gaetano o alla De Gregori. Ma avevo già un contratto alla Rca e aprivo i concerti di Venditti prendendomi tutti i fischi perché apparivo sul palco e non ero lui. Un giorno, sul treno per Padova dove frequentavo la facoltà di Medicina, incontrai un militare americano di colore. Era una montagna. Alto due metri, occupava quasi due sedie davanti a me. Mi chiese di poter suonare la mia chitarra. Fece un pezzo di fingerpicking e io restai di stucco. Sentivo due chitarre e ne vedevo solo una. Iniziai a studiare quella tecnica e me ne impadronii. Poi mi presentai sul palco con canzoni come “Stasera l’aria è fresca” e iniziarono a chiedermi il bis».
È vero che fu De Gregori a segnalarti alla Rca?
«De Gregori, reduce dal grande successo di “Rimmel” uscito da appena un anno, era un amico di un amico e fu per gentilezza che mi portò alla Rca. I manager mi misero sotto contratto e io ero felicissimo. Non sapevo però di aver firmato un contratto leonino. Diceva, in poche parole: se tu produci qualcosa di buono, è nostro; se entro tre anni non succede nulla, il contratto si scioglie; infine, ti diamo l’1,5 % di tutto quello che guadagni. Avrebbero messo sotto contratto chiunque, anche il mio meccanico (risate). Però, grazie a quel contratto, ero autorizzato ad entrare nel bar della Rca dove mi confrontavo con artisti come Pino Daniele o lo stesso De Gregori. Io facevo sentire a Francesco le mie ultime cose, lui rispondeva dicendo: bella, ma senti, anch’io ho scritto qualcosa, e cantava “Generale”… e tu tornavi a casa con il dubbio che magari quella non fosse la tua strada. Passarono due anni prima che scrivessi la prima canzone su cui, finalmente, anche gli altri non ebbero dubbi. Il tavolo non ballava più».
Hai collaborato con tanti musicisti importanti. Tra questi, il teramanao Ivan Graziani. Che ricordo conservi di lui?
«Una delle persone in assoluto più pazze e più simpatiche che abbia mai incontrato. Non ho mai riso tanto come con lui. Interpretava il personaggio del piccolo diavolo con gli occhiali rossi ma aveva una vera anima rock. Un grandissimo chitarrista che conosceva lo strumento come pochi. Cambi di tonalità immediata e altre cose incredibili. Sul palco le sue performance erano sempre di grandissimo livello e aveva questa immensa fantasia nello scrivere canzoni».
Che differenza c’è tra la tua generazione di musicisti e autori e il panorama musicale di oggi?
«Una differenza c’è. Una volta si diceva: vado a sentire un concerto. Oggi si dice: vado a vedere un concerto. È l’aspetto a prevalere sul resto. Ragioni economiche o televisive o di comunicazione guidano tutti i processi e così è normale che non ci sia un grande da moltissimi anni. Non consentono ai ragazzi con talento di crescere e di affermarsi».
Le tue canzoni più belle, secondo te, sono quelle che non conosciamo abbastanza?
«Forse sì. Una delle mie canzoni più belle, per esempio, è “Il respiro degli amanti”, nata un paio di anni fa mentre passeggiavo sulla spiaggia di Roseto durante un temporale. Vedo delle orme vicino alle mie e scopro che vengono da un albergo. Mi chiedo cosa ci facciano due persone nell’unico albergo aperto a Roseto a gennaio. Amanti, ovvio. Sono tornato a casa e, ispirato da quella storia, ho scritto la canzone».
Cosa ti ha regalato la musica e cosa non ti ha mai dato?
«Non mi ha mai dato grasso che cola, ma mi ha regalato la libertà. Io mi sento una persona libera e niente mi condiziona o mi fa paura. La musica poi ti regala un rapporto diverso con gli altri, che si aprono con te e ti sorridono proprio perché sei un musicista».
Tu vivi della tua musica?
«Sì, facendo concerti, incidendo dischi, girando in lungo e in largo l’Italia. Non diventerò ricco per questo, o forse sì, non lo so, ma non faccio la mia musica per guadagnare più soldi».
Perché e quando hai scelto l’Abruzzo per vivere?
«L’Abruzzo l’ho scelto inizialmente per una ragione logistica. Prima vivevo in Trentino e quando capitava una data in Calabria era un disastro. L’Abruzzo invece è a un’ora e mezza da Roma e se vuoi spostarti in Val d’Aosta o al sud, lo fai in giornata e senza problemi. Mare e montagna sono raggiungibili in mezz’ora e la collina è bellissima. È una regione ancora poco conosciuta ma, direi, davvero benedetta. Non ce n’è un’altra così. L’unico problema dell’Abruzzo… ».
L’unico problema dell’Abruzzo?
«Sono i politici, come ripeto sempre. Quando dico che vivo in Abruzzo, mi rispondono: ah, le pecore e Razzi. Beh, insomma, rispondo io, non è che ci siano solo queste cose. Però è triste sentirlo dire».
Da qualche anno porti avanti un progetto di musicoterapia con i malati psichiatrici. Ce ne parli?
«È una forma di terapia giovane, i cui possibili approcci sono ancora poco conosciuti. Ho fatto la mia prima esperienza a Roma su invito del direttore della struttura. Ho accettato dicendo che ci avrei provato. Sono entrato in sintonia con i pazienti suonando le canzoni che conoscevano. Con la musica si sono aperti e io li ho invitati a raccontarmi le loro storie. Spesso si trattava di ricordi che affondavano le radici nella loro infanzia. Poi abbiamo trasformato i ricordi in parole e le parole in canzoni. Ma non canzoni qualsiasi. Queste sono davvero belle».
Nicola Catenaro
Intervista pubblicata su “La Città quotidiano” il 10 ottobre 2015